Figlio di un territorio aspro, duro, severo, eppure accogliente, ospitale e generoso, il quasi centenario marchio di “bionde” ha una storia che si intreccia con quella di 15 siciliani caparbi, ex operai e oggi imprenditori: nel 2007 la famiglia Faranda acquista da Heineken il “Birrificio Messina” di via Bonino, in centro città (con la garanzia della tutela dei posti di lavoro per cinque anni). Ma nel 2011 i nuovi proprietari annunciano la chiusura dello stabilimento e, per i 41 dipendenti, arrivano le lettere di licenziamento. Senza pensarci due volte, si dà vita allora a un presidio di protesta: un tendone di fronte al cancello d’ingresso del birrificio diventa la “casa” degli ex lavoratori per 18 mesi ininterrotti, con notti e giorni trascorsi tra caldi torridi e piogge torrenziali. Ma la priorità, per tutti, è difendere una vita intera spesa a servizio della più antica tradizione brassicola di Messina. Un anno e mezzo dopo, nel quale non mancherà mai la solidarietà dei concittadini, arriva la svolta. O meglio, l’esordio di una rinascita che, all’inizio, sembrava impossibile: nel 2013, 15 operai dei 41 in protesta – consapevoli di saper fare la birra e con passione – investono il proprio TFR per risollevare le sorti del “Birrificio Messina” e fondare la Cooperativa che porta il suo nome. Mettendo le case a garanzia dei mutui e ricevendo il sostegno della “Fondazione di Comunità di Messina”, nel 2016 il nuovo stabilimento nella zona di Asi di Larderia, alle porte della città, avvia la produzione della “Birra dello Stretto” e della “DOC 15”. «Siamo stati 15 pazzi, da operai ci siamo ritrovati a fare gli imprenditori», racconta Mimmo Sorrenti, presidente della Cooperativa e mastro birraio da 37 anni. All’inaugurazione del birrificio nato il 9 agosto 2013, c’erano cinquemila persone, compreso Nino Frassica, invitato in qualità di padrino. «Vedere così tanta gente ci ha ripagato di tutta la fatica fatta – aggiunge Mimmo – perché oggi lo stabilimento lo vedete bello e moderno, ma prima c’erano solo stalle. Abbiamo dovuto lavorare notte e giorno per mesi prima di renderlo così. Siamo stati noi a togliere l’amianto, a fare i tetti e le tubature. Oggi che le nostre birre sono arrivate in Francia, in Svizzera, negli Stati Uniti e in Australia, però, siamo davvero felici». Lo stabilimento simbolo di un sogno realizzato e di un successo quasi impossibile, quest’anno è in pareggio con i conti e al suo interno si lavora con la speranza di vedere presto un piccolo utile (Mimmo ha riscattato già la sua casa). Al “Birrificio Messina” la politica non entra: «Possono venire solo come privati cittadini. Se no li butto fuori», tuona il presidente iscritto all’anti pizzo di don Terenzio, parroco della Chiesa di Santa Maria, che ora è a Roma. Le porte sono sempre aperte invece per le scuole e per i turisti. Basta avvisare con un giorno d’anticipo. Attualmente, oltre ai 15 soci fondatori, nello stabilimento lavorano cinque giovani, tutti figli dei proprietari. Come Giuseppe, 27enne, che ha seguito la strada di papà Mimmo e si occupa di preparare le ricette nella sala cottura. L’incarico di vice presidente, invece, lo ricopre una donna, Francesca, 52 anni, separata con due figlie. Era già impiegata in via Bonino, subentrata a suo padre Felice, dopo la scomparsa. «È stata dura quando ci hanno licenziato, soprattutto vedere i politici “sordi” rispetto alla nostra causa. Ho accettato di far parte dei 15 perché avevo bisogno di ricominciare, il mio matrimonio era appena finito», confessa la vice presidente.
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