Nuove testimonianze giungono dal Mar Mediterraneo che bagna le Egadi, intorno alla Sicilia. Là dove oltre 2000 anni fa si consumò la mitica battaglia tra Roma e Cartagine, che pose fine alla Prima Guerra Punica. La verità su quella pagina di storia è ormai scritta nero su bianco. Grazie al prezioso lavoro condotto dalla Regione Siciliana insieme a importanti partner internazionali.
Il mare che bagna le isole Egadi, piccolo e rinomato arcipelago siciliano, ha restituito in pieno agosto alcuni preziosi frammenti d’epoca romana. A ottantacinque metri di profondità sono stati rinvenuti tre rostri in bronzo, uno dei quali già riportato a galla: si tratta dei tradizionali oggetti di sfondamento uncinati, montati dagli antichi romani sulle loro prue, per speronare e affondare le navi nemiche. Il ritrovamento è frutto della collaborazione tra la Soprintendenza del Mare – braccio operativo dell’Assessorato regionale dei Beni culturali, oggi guidato dall’archeologa Adriana Fresina – e la statunitense ‘Rpm Nautical Foundation’. Un nuovo, emozionante incontro con quella che fu una pagina determinante di storia, ricostruita nei decenni grazie all’appassionato lavoro di ricerca, recupero, classificazione e musealizzazione di reperti, tra scavi, missioni subacquee, ipotesi di rotte marine e strategie di guerra.
Oltre 2.400 anni fa il volto del Mediterraneo, straordinario crocevia di lingue e di culture, cambiava radicalmente. Mentre cambiavano confini e destini d’Occidente. Il 10 marzo del 241 a.C. un violento scontro tra centinaia di navi militari decretava la vittoria dei Romani sui Cartaginesi: così, con un ultimo atto epico, terminava la prima Guerra Punica. Quel tratto di mare nei pressi della Sicilia, che fu teatro del conflitto decisivo, consegnava alla nuova alba una scena insanguinata di relitti, navi arpionate, armi e cadaveri inghiottiti dalle acque. Cartagine periva, Roma trionfava, tra venti di conquista e orizzonti luttuosi. Un’aura di leggenda avvolse la mitica Battaglia delle Egadi, su cui gli studiosi si concentrarono con sempre maggiore attenzione, fin dalla metà del secolo scorso. In origine l’ipotesi dei ricercatori assegnava alla zona di Cala Rossa, al largo dell’isola di Favignana, il punto esatto in cui lo scontro si sarebbe consumato. Solo teorie, nessuna prova. Fin quando, nei primi Anni Ottanta, un personaggio affascinante come Cecè Paladino, erede della dinastia Florio ed esperto subacqueo, non rintracciò un corpus di 150 ceppi d’ancore, sepolti nel mare a est di Capo Grosso, la punta più a Est dell’isoletta di Levanzo. E ne rese testimonianza ad esperti e studiosi. Fu l’archeologo Sebastiano Tusa – oggi Assessore dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana nella giunta Musumeci, figlio del compianto archeologo, soprintendente e accademico Vincenzo Tusa – a raccogliere quella storia e a comprenderne il valore.
Quel tratto di mare nel trapanese, forse, era la vera cornice in cui la feroce battaglia si consumò, due millenni or sono. La scena cambiava, improvvisamente. E fu lì, in effetti, in quel fatidico mattino di marzo, che la flotta romana guidata da Gaio Lutazio Catulo si fermò ad attendere il nemico, avendone intuito le mosse: dopo aver salpato dall’isoletta di Marettimo, su ordine del comandante Annone, le navi di Cartagine si dirigevano verso la cittadina di Erice, sulla sommità del monte San Giuliano, dove il comandate Amilcare aspettava rifornimenti, assediato dai Romani. Fu dunque intorno a Levanzo che l’agguato ebbe luogo, cogliendo di sorpresa i cartaginesi e incoronando, al prezzo di migliaia di vite, i nuovi signori del Mediterraneo. Ci volle però molto tempo perché quelle teorie potessero trasformarsi in certezza. Solo nel 2004 un primo, determinante reperto emerse dalle acque, esattamente nel punto indicato da Paladino: un pescatore trovò sui fondali, a circa 100 metri di profondità, un grosso rostro. La prova regina era affiorata dal segreto dei mari e dal silenzio prolungato della storia.
Da allora, grazie alle indagini effettuate dalla Regione Siciliana con la Soprintendenza del Mare – diretta da Sebastiano Tusa tra il 2004 e il 2018 – e alle operazioni tecniche condotte dalla RPM Nautical Foundation, decine di rostri e di elmi sono stati riportati alla luce del sole. L’isola di Levanzo, afferma oggi Tusa al margine del nuovo ritrovamento, “detiene un record mondiale: sedici rostri e ventuno elmi. Un primato che pone la politica dei Beni culturali siciliani ai vertici dell’archeologia mondiale, così come riconosciuto da prestigiosi enti di ricerca e università di tutto il mondo”. Le sinistre armi da guerra appena identificate, con cui allora si colpiva il ventre dei possente vascelli nemici, si aggiungono così ai tredici rostri già recuperati durante le precedenti campagne di archeologia immersiva – undici romani e due cartaginesi – nonché alle molte anfore, alle varie dotazioni di bordo e agli elmi del tipo…
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